Our collaborator Dr Valeria Fiorillo comments on a recent decision by the Italian Court of Cassation.

In data 03.02.2022, con sentenza n. 3808, la Corte di Cassazione (sezione penale) ha dichiarato
inammissibile il ricorso proposto da un uomo, condannato nei precedenti gradi di giudizio per il reato
di concorso con ignoti nella diffusione di idee fondate sulla superiorità e sull’odio razziale o etnico e di
negazione della Shoah ai sensi dell’art. 110 c.p., nonché dell’ art. 3, comma 1, lett. a), e art. 3-bis della
legge n. 654 del 1975 (ora art. 604-bis c.p.), che prevede l’aggravante speciale del negazionismo. La
condotta, posta in essere nel Giorno della Memoria, consisteva nella propaganda di idee che
inneggiavano alla superiorità della razza bianca contro ogni presenza di giudaismo in Europa, e
negavano l’Olocausto ebraico. Ciò avveniva tramite la distribuzione e l’affissione in alcune vie di Milano
di volantini, striscioni e scritte ispirate al Nazismo: tra questi, alcuni ritraevano l’immagine di Pinocchio
recante la scritta sul naso “Made in Israel”, alludendo alla natura bugiarda delle dichiarazioni rese dalle
vittime della Shoah.
La sentenza della Cassazione riveste una certa rilevanza perché per la prima volta la Corte di legittimità
si è trovata a definire i parametri applicativi dell’aggravante di negazionismo della Shoah. Nel farlo, essa
si è conformata all’orientamento della Corte europea dei diritti dell’uomo in materia (d’ora in avanti
Cedu), che considera il negazionismo della Shoah come una forma di “hate speech”, e, in quanto tale, è
escluso dalla protezione della libertà di espressione e, dunque, legittimamente sanzionabile da parte
dello stato.
In sostanza, nel ricorso dinanzi la Corte di Cassazione, il ricorrente lamentava la violazione dell’art. 10
CEDU e il vizio di motivazione, poiché i giudici avevano a suo dire erroneamente applicato una
presunzione assoluta di illegalità delle idee “revisioniste” dell’Olocausto, che, invece, devono ritenersi
legittime, poiché non negherebbero la Shoah, ma ne contesterebbero l’esistenza sulla scorta di elementi
probatori validamente raccolti dagli studiosi.
La tesi della difesa rappresenta, in realtà, un classico esempio di negazionismo che tenta di accreditarsi
come “revisionismo”, in quanto, da un lato, la semplice messa in discussione degli eventi storici relativi
alla Shoah non ha rilevanza penale in Italia, dall’altro, il “revisionismo” è considerato una corrente
storiografica riconosciuta a livello scientifico e accademico.
Nell’ordinamento italiano, infatti, il negazionismo è qualificato come aggravante dei delitti di
propaganda razzista, di istigazione e di incitamento di atti di discriminazione commessi per motivi
razziali, etnici, nazionali o religiosi, a seguito dell’introduzione della legge n. 115 del 2016, adottata nel

rispetto di quanto previsto dalla decisione quadro 2008/913/GAI del Consiglio dell’Unione Europea.
Dunque, ai fini della punibilità, non è sufficiente la semplice negazione, ma è necessario che la
propaganda ovvero l’istigazione e incitamento, commessi in modo che derivi concreto pericolo di
diffusione, si fondino in tutto o in parte sulla negazione della Shoah o dei crimini di genocidio, dei
crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra.
Nel caso che ci occupa, i giudici hanno valutato la condotta del ricorrente come integrativa del reato di
propaganda di idee discriminatorie e di negazione della Shoah sulla base di tre elementi: (i) il contenuto,
dal carattere aberrante, dei volantini diffusi per le vie della città; (ii) la circostanza che il fatto si fosse
verificato proprio il Giorno della Memoria; (iii) l’accertata adesione del ricorrente alle idee
discriminatorie sulla superiorità della razza e negazioniste dell’Olocausto ebraico.
La Corte di Cassazione, nell’accogliere tale interpretazione, ricostruisce gli elementi che distinguono il
revisionismo dal negazionismo ed inquadra le idee manifestate dal ricorrente all’interno del secondo
fenomeno.
La distinzione tra revisionismo e negazionismo, operata dalla Corte di Cassazione, avviene attraverso il
riferimento alla giurisprudenza della Cedu elaborata in materia di negazionismo: secondo l’opinione
della Cedu, mentre il revisionismo è da definirsi come un orientamento storiografico volto a
reinterpretare determinati fatti, qualora l’evidenza probatoria consenta e supporti una diversa
interpretazione alternativa a quella dominante, il negazionismo consiste nel negare fatti storici accertati,
senza che le tesi sostenute dai negazionisti siano adeguatamente supportate da alcun elemento
probatorio scientificamente valido, ma piuttosto alimentate da un’ideologia razzista e antisemita che fa
ricorso alla teoria del complotto.
Poiché, dunque, secondo l’interpretazione consolidata nella giurisprudenza della Cedu, il discorso
negazionista è per sua stessa natura e intrinsecamente antisemita e razzista, e perciò contrario ai valori
fondativi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, sorta sulle ceneri della Shoah, tale discorso va
escluso dalla protezione del diritto alla libertà di espressione, tutelato dall’art. 10 CEDU e considerato
come abuso del diritto, ai sensi dell’art. 17 CEDU.
Le origini di tale tendenza sono da ricondurre al caso Garaudy v. Francia – richiamato dalla stessa Corte di
Cassazione – in cui il ricorrente sosteneva che il numero delle vittime dell’Olocausto non era stato
elevato, mettendo in dubbio anche il piano nazista relativo alla cosiddetta “soluzione finale”. In tale
occasione, la Cedu ha definito come “fatti storici chiaramente stabiliti” quei fatti che non sono più
oggetto di dibattito tra storici, tra cui, appunto, l’Olocausto. Conseguentemente, la sua messa in
discussione non contribuisce in alcun modo alla ricerca della verità storica, ma ha piuttosto la celata
finalità di diffondere odio nei confronti di una minoranza storicamente discriminata e perseguitata.

Pertanto, il discorso negazionista non risulta meritevole di tutela, perché finalizzato alla “distruzione dei
diritti o delle libertà riconosciute nella presente Convenzione”. L’esclusione dalla protezione della
Convenzione avviene “de plano”, cioè a prescindere da una valutazione specifica delle dichiarazioni
condotta attraverso il “three assessement criteria”, che prevedrebbe una specifica valutazione della
legalità dell’interferenza, della sua legittimità e della sua necessità in una società democratica.
La Corte di Cassazione sembra richiamare l’impostazione della Cedu rispetto alla criminalizzazione del
negazionismo della Shoah al fine di stabilire una continuità con tale giurisprudenza, costante nel
considerare tale tipologia di discorso una forma di “hate speech” e nel ritenere legittima la sua
criminalizzazione, ammettendo, pertanto, limitazioni al diritto alla libertà di espressione in favore di una
maggiore tutela della dignità delle vittime.