Our collaborator Dr Valeria Fiorillo comments on a recent decision by the Italian Court of Cassation.
La Cassazione respinge il ricorso della Lega. Illegittimo chiamare “clandestini” i richiedenti asilo; Cass., 16 agosto 2023, n. 24686/2023
Con sentenza pubblicata il 16 agosto 2023, la terza sezione civile della Corte di Cassazione ha respinto il ricorso proposto dalla Lega Nord – Lega Lombarda e Lega Nord per l’Indipendenza della Padania avverso la sentenza n. 428/2020 della Corte di Appello di Milano, la quale aveva confermato la condanna delle stesse al risarcimento del danno derivante dal comportamento discriminatorio, per ragioni di razza o etnia, tenuto dalla Lega locale in relazione a un episodio di accoglienza di richiedenti asilo.
Più nello specifico, la Lega locale, Sezione di Saronno, in occasione di una protesta indetta per contestare l’assegnazione di 32 richiedenti asilo a un centro di assistenza, messo a disposizione da una parrocchia del Comune, aveva affisso sul territorio comunale circa 70 manifesti, in cui veniva utilizzata l’espressione “clandestini” con riferimento ai 32 cittadini stranieri. Tali manifesti riportavano il seguente contenuto: “Saronno non vuole i clandestini. Vitto, alloggio e vizi pagati da noi. Nel frattempo, ai saronnesi tagliano le pensioni e aumentano le tasse, Renzi e Alfano complici dell’invasione”.
ASGI (Associazione degli studi giuridici sull’immigrazione) e NAGA, associazione di volontariato che sostiene le persone migranti, ritenendo che qualificare i richiedenti asilo come “clandestini” costituisse “molestia discriminatoria”, cioè un comportamento idoneo a offendere la dignità della persona e a creare un clima umiliante, degradante e offensivo, rilevante ai sensi dell’art. 2 comma 3, del decreto legislativo n. 215 del 9 luglio 2003, avevano agito in giudizio dinanzi al Tribunale di Milano contro la Lega locale. Il giudice di prime cure aveva accolto con ordinanza il ricorso e condannato la Lega locale e nazionale al risarcimento di euro 5.000, a titolo di danno non patrimoniale.
Allo stesso modo, la Corte di Appello, con sentenza del 6 febbraio 2020, confermava il giudizio già dato dal Tribunale, affermando che l’utilizzo dell’espressione “clandestini” per identificare 32 persone nella condizione di richiedenti la protezione internazionale era illegittimo e che l’impiego di tale espressione su dei manifesti aveva l’effetto di violare la dignità dei cittadini stranieri e di creare attorno a loro un clima ostile, “umiliante ed offensivo, per motivi di razza, origine etnica e nazionalità”.
Da ultimo, anche i giudici di legittimità hanno aderito a tale interpretazione.
La Corte di Cassazione – a seguito di una disamina della legislazione sovranazionale e nazionale a tutela della dignità e contro la discriminazione fondata sulla razza – ha ribadito che nel caso in esame l’uso dell’espressione “clandestini” era illegittimo, poiché i cittadini stranieri destinatari del messaggio, avendo presentato allo stato italiano domanda di protezione internazionale, erano in possesso di un regolare permesso di soggiorno temporaneo – valido per sei mesi e rinnovabile fino alla decisione sulla domanda – e pertanto non era configurabile nei loro confronti il reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato, di cui all’art. 10-bis del decreto legislativo n. 286/1998.
La Corte di Cassazione, inoltre, ha ritenuto che l’uso del termine “clandestini” in quello specifico contesto creasse un clima “intimidatorio, ostile, degradante, umiliante ed offensivo” nei confronti dei 32 richiedenti asilo, e si risolvesse, pertanto, in un comportamento discriminatorio. Più specificatamente, secondo la Corte, la condotta espressiva posta in essere andava intesa come una forma di discriminazione indiretta fondata su ragioni di razza o di etnia, sulla base di diversi elementi, quali (i) il contenuto del termine “clandestino”, che ha di per sé un’ accezione negativa e un valore dispregiativo, (ii) il contesto verbale in cui era inserita l’espressione, volto ad alimentare un sentimento di intolleranza tra gli abitanti, (iii) l’effetto esterno concretamente prodotto da tale espressione, che, in tal caso aveva generato un clima di ostilità nei confronti dei destinatari di tale appellativo. La Corte perviene a tale conclusione specificando che, affinché un comportamento possa definirsi discriminatorio, non è necessario che vi sia una lesione effettiva di un diritto fondamentale.
Per quanto attiene, invece, il conflitto tra valori costituzionali, in questo caso dignità di una minoranza discriminata, da una parte, e libertà di espressione dei manifestanti, dall’altra, preme sottolineare che la Corte di legittimità, nell’operare il giudizio di bilanciamento, ha ritenuto prevalente il bene-dignità sia sul piano astratto che su quello concreto. Essa ha dapprima richiamato la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo nel sostenere la superiorità gerarchica, sul piano valoriale, della dignità umana, in quanto fondamento di una società democratica e pluralista, e ha poi, a fortiori, affermato che nel caso di specie la condotta espressiva non poteva considerarsi in nessun modo un legittimo esercizio del diritto alla libera manifestazione del pensiero, bensì un abuso dello stesso, perché realizzato con modalità intolleranti.
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