Sanchez c. Francia [GC], 15.05.2023, ricorso n. 45581/2015

Il 15 maggio 2023 la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo (d’ora in avanti Cedu) ha pubblicato la sentenza relativa al caso Sanchez c. Francia. Il ricorso era stato promosso da un politico francese, Julien Sanchez, che, durante le elezioni parlamentari del 2011, a cui partecipava in qualità di candidato del partito di estrema destra Front National nella circoscrizione di Nimes, aveva pubblicato un post sulla sua pagina Facebook – pubblica e gestita da lui personalmente – criticando l’attività del suo opponente politico F. P. Al di sotto del post terze persone avevano pubblicato commenti islamofobici, nei quali veniva affermato, tra l’altro, che il politico F. P. aveva “trasformato Nimes in Algeri”, alludendo dunque all’incremento dell’immigrazione nella città francese durante l’incarico di F.P. come vice-sindaco della stessa.

A seguito della denuncia presentata nei confronti degli autori dei commenti e del ricorrente, il Tribunale penale di Nimes aveva riconosciuto la loro responsabilità e li aveva condannati a una pena pecuniaria per incitamento all’odio o alla violenza sulla base della loro origine/appartenenza a uno specifico gruppo etnico, razza, religione o nazione. In particolare, il tribunale penale aveva considerato il ricorrente penalmente responsabile nella sua qualità di “producer”, poiché egli, avendo creato una pagina pubblica su Facebook, aveva il compito di monitorare personalmente i commenti pubblicati da terzi su tale pagina e eventualmente rimuovere quelli offensivi. Il ricorrente aveva poi impugnato la sentenza di primo grado dinanzi alle giurisdizioni superiori, ma il ricorso era stato ugualmente respinto negli altri gradi di giudizio.

La Grande Camera interviene a seguito di una pronuncia della Camera che per sei voti a uno aveva respinto il ricorso del ricorrente, non riconoscendo alcuna violazione del suo diritto alla libertà di espressione. Il ricorrente chiede l’intervento della Grande Camera che si trova pertanto a dover valutare:

a) se il riconoscimento della responsabilità penale del ricorrente per commenti di terzi, qualificabili come hate speech e pubblicati sul proprio profilo FB, costituisca un’interferenza nel suo diritto alla libertà di espressione;

b) se, in caso affermativo, l’ingerenza su tale diritto sia prescritta dalla legge, persegua un fine legittimo ed sia necessaria in una società democratica, secondo quanto previsto dall’art. 10 comma 2 CEDU.

Sotto il primo profilo, poiché nel caso di specie il ricorrente era stato punito con una sanzione penale, la Grande Camera afferma che le autorità interne hanno compiuto un’interferenza nel diritto alla libertà del ricorrente. Quanto al secondo profilo relativo al test tripartito, che, se positivo, legittimerebbe l’interferenza statale, la Grande Camera sostiene che: i) la responsabilità del “producer” per i contenuti pubblicati sulla propria pagina Facebook era prevista da una legge interna francese dotata dei necessari requisiti di accessibilità e prevedibilità; ii) la normativa applicata perseguiva il fine legittimo di proteggere i diritti e la reputazione dei terzi, da una parte,  e di prevenire disordini e reati, dall’altra; iii) la restrizione del diritto alla libertà di espressione era necessaria e proporzionata rispetto al fine perseguito, di tutela dell’ordine pubblico e di prevenzione dei crimini.

A ben vedere, questo rappresenta il punto più problematico e controverso della sentenza perché, nell’avallare l’interpretazione dei giudici interni circa la corretta qualificazione dei commenti come hate speech, la Corte sceglie di attribuire una maggiore prevalenza al diritto del destinatario dei messaggi, appartenente a una minoranza discriminata, piuttosto che a quello alla libertà di espressione del ricorrente, che pure era un personaggio politico che esprimeva le proprie idee in una competizione elettorale. Così facendo, la Grande Camera ribaltava gli argomenti addotti dal ricorrente e adduceva che essendo il ricorrente un attore politico, egli aveva una responsabilità maggiore nel garantire il controllo e monitoraggio dei contenuti pubblicati sulla propria pagina Facebook e la rimozione di quelli illegali.

D’altronde, secondo la Grande Camera, la tutela del “political speech”, anche in contesti elettorali, non è indiscriminata, ma incontrerebbe un limite, applicabile al caso di specie, laddove il discorso pubblico si configuri come “hate speech” e sia dunque volto alla diffusione dell’odio, specialmente nel mondo digitale, dove la diffusione è più rapida e vasta.